venerdì 30 maggio 2014

Persino ai morti...


— Non c'è nulla che possa accadere, nella vita di un uomo, senza che questi possa riuscire a trasformarla in un guadagno— l'ebreo che gli stava dietro ascoltò in silenzio quelle che sarebbero state le ultime parole pronunciate da un condannato a vivere la morte da vivo, e non poté che convenire con lui, perché quell'estrema consapevolezza, per essere raggiunta, aveva avuto bisogno di troppe vittime. Per lui, quel guadagno, stava nell'aver capito che persino la morte era poco importante, per un Dio che donava la vita a tutti, persino ai morti…

mercoledì 28 maggio 2014

Apparenze ingannevoli

La natura sembra favorire i mascalzoni... ma lo fa per poterli abbandonare nel deserto quando la strada per tornare indietro sarà divenuta troppo lunga.

Il campanello

Ho un campanello, fuori dalla porta, che ha un suono ironico, come volesse dire di aspettare ad aprire ché hanno suonato per scherzo. 
Io lo so e gli do retta, cincischiando sempre un po' prima di chiedere chi è. Non suona spesso, perché abito in un luogo isolato e abbandonato da Dio, così almeno ho creduto fino a quel giorno, nell'unico modo che ho di credere a qualcosa che ancora non ha suonato il campanello della mia curiosità. 

— Dlìn dlàn!— capii che qualcosa stava andando per il verso storto, perché mai si era permesso di suonare mentre frugavo nella spazzatura.
Cercavo lo scontrino d'acquisto della macchina tritaghiaccio che si è rotta prima ancora di addentare un cubetto, e l'aveva fatto subito dopo che avevo infilato la spina nella presa della corrente.

— Dlìn Dlàn!— insistette il suono, aumentando il mio fastidio
— Chi è?— dissi nervoso, sperando se ne andasse senza prima volermi stringere la mano
— Siamo venute a consegnarle un omaggio…— fu la timida risposta
— Lasciate pure sullo zerbino— dissi, allontanandomi dalla porta
— Non possiamo farlo— rispose una delle due
— Non ci è possibile lasciare a terra la parola che è rivolta al Cielo— ebbi un sobbalzo prima di rispondere
— Appendetela alla maniglia, allora…— vidi la maniglia abbassarsi piano e poi rialzarsi per riabbassarsi di nuovo, ma senza che ci fosse una spinta per aprire la porta
— Non riusciamo ad appenderla— dissero entrambe
— La prego ci apra— continuò la voce, quasi fosse abituata alla sconfitta
— No!— dissi io
— Non ho tempo per le sciocchezze!—
— Ma queste non sono sciocchezze, è la parola di Dio che vuole essere ascoltata dalle sue orecchie…— io non avrei aperto neanche a Satana, il macellaio che chiamavo così perché si era rotto il labbro superiore, scivolando sul sangue che bagnava il pavimento della sua bottega, proprio nel punto di attacco con quello inferiore, dando al suo volto l'espressione maligna che quel buon uomo non meritava
— Andate via! Non parlo la stessa lingua di Dio, e non mi fido delle traduzioni fatte da altri che, come me, quella lingua non conoscono—
— C'è una sorpresa all'ultima pagina del nostro opuscolo, è una specie di gratta e vinci spirituale che funziona solo se lei avrà letto tutto l'opuscolo. Le dirà se avrà guadagnato il paradiso, o si sarà meritato l'inferno—
Io stetti in silenzio e con le orecchie tese, ad aspettare lo scalpitio dei tacchi sugli scalini che avrebbe allontanate le impiccione dalla mia porta.
Non sentii nulla, e dopo dieci minuti nei quali sguinzagliai la mia pazienza... aprii l'uscio di due dita per controllare che se ne fossero andate, e sul pianerottolo non c'era nessuno, solo un opuscolo attaccato alla maniglia con un pezzo di scotch che, però, non aveva segni dell'impronta del dito che l'aveva strappato. 
Sembrava, quell'opuscolo così appeso, fosse formato da due ali d'angelo che sbattevano, per il mio aver abbassato la maniglia.

"Vivi bene senza Dio?" diceva il titolo di copertina

Saltai d'un colpo le trentatré pagine e andai subito al sodo, grattai i riquadri dorati sul retro della copertina, e vidi che non era stato tempo buttato. 
Una scritta, sotto alle scorie d'oro che avevano tentato di seppellirla, diceva:
"La Verità è una, riprova, sarai più fortunato!"

La mente

La mente è solo il mezzo che dà forma alle proprie intenzioni, e le intenzioni sono forgiate dalla personalità, la quale misura la distanza che separa lo spirito centrale, del quale siamo espressione, dalla superficie di ciò che abbiamo scelto di essere.

martedì 27 maggio 2014

Il ragno

Quattro occhietti lucidi e senza palpebre si facevano spazio tra peli fitti, grigi e appuntiti, in una testolina grande la metà dell’addome, tondo e grassoccio, che le stava dietro. Come riesca, un esserino pelosetto, a trasformare la carne della sue prede in fili elastici, collosi e robustissimi, non è dato sapere, e deve essere un segreto che tutti i ragni sanno ben custodire, se l’uomo ancora non lo ha trasformato in denaro. Un segreto che gli consente di non appiccicarsi alla stessa tela che gli procura il nutrimento.
La sagacità di questo insetto dovrebbe consentire, alla specie umana, di mettere in forse la propria celebrata intelligenza, dal momento che la trappola che l’uomo ha imparato a costruirsi, per sopravvivere, gli si è incollata addosso imprigionandolo senza scampo.
L’uomo si compiace della sua tela, tanto che la chiama “progresso”, e per lui poco conta che ci stia soffocando dentro.
Il ragno di questa storia è di quelli comuni, tondo, grigio e con una croce sulla schiena che parrebbe essere il segno di una fede, diversa da quella che hanno le mosche che cattura.
È da un mese che osservo quello che combina, più o meno da quando è comparso fuori dalla mia casa, e lui cura quello che faccio io. Dal suo sguardo sembrerebbe deluso. Come dargli torto, al suo confronto io sembro un bipede approssimativo. Quel suo squadrarmi pietoso mostra che è convinto sia il numero di zampe e di occhi a indicare le qualità intellettuali di un essere.
Ma la tragedia che vive la mia specie, o forse solo io, non sta soltanto nelle quattro zampe che abbiamo, neppure sufficienti per alimentare fughe che abbiano un andamento dignitoso. Rispetto a lui io sono più grosso e pesante, ma s’intuisce subito che lui è certo che la grossezza e il peso non sono aspetti correlabili alla qualità. Gli uomini, invece, ne sono convinti, al punto da credere di essere più intelligenti delle donne per i cinque grammi che hanno di cervello in più, senza sospettare che possano essere lì per aggravare ulteriormente le loro responsabilità nel non sapere che farsene.
Il ragno, d'altra parte, ha cose più importanti da fare: costruire una tela resistente agli incazzi della natura non è una sciocchezza, senza contare l’impegno di tendere i cavi principali della sua struttura, per i molti metri che separano i due muri del mio cortile.
Lo ha fatto di notte, sono sicuro per non rivelarmi il trucco, e al mattino l’ho intravisto guardare con sufficienza il mio stupore.
Appena arrivato nei pressi della mia casa la tela voleva tenderla tra le felci sotto alla cassetta della posta, un lavoretto da nulla per un ingegno come il suo, ma io da lì dovevo passare spesso, così l’ha spostata in un posto più sicuro, accanto alla mia moto, badando bene a non coinvolgerla in quella rete. Ancora non so se lui attraversi il mio cortile via terra, o zampettando per il perimetro dei muri, con in bocca il bandolo della sua matassa, masticando e filando in un continuum di spessore uniforme, per evitare che il filo si arricci.
Da parte mia bestemmio al minimo accenno di garbuglio, maledicendo di essermi tagliato le unghie.
Ho notato che il ragno sistema la sua tela tutti i giorni, ma quando sospetta che possa piovere si ferma, riprendendo il lavoro quando rispunta il sole, procedendo avanti e indietro sui fili dell’ordito, per irrobustirli ispessendoli, ma senza esagerare, per non togliere loro la necessaria elasticità.
Il nostro ragno ha piccolissimi denti, inadatti a mordere, eppure tutti gli uomini hanno paura del suo morso.
Ma una cosa, a nostra difesa, c’è, perché noi maschi ci accoppiamo con le femmine senza che queste ci divorino subito dopo, ed è un fatto incontrovertibile che non ci può togliere nessuno. Adesso che me ne sono ricordato esco, guardo fisso negli occhi quel ragnetto insignificante, e lo derido, ecchecavolo! In fondo se l’è cercata.

Lui sta lì, senza valutare il pericolo rappresentato dalla quantità della mia stazza, così gli avvicino la mia regale imponenza e lo fisso, sostenendo il suo sguardo curioso, e compongo nella mia mente, per ritrasmettergliela, l’immagine di me che, dopo l’accoppiamento, mi accendo una sigaretta, anche se non fumo, invece di finire accoppato come accade a lui con la sua compagna che è sempre più grossa di lui, e proprio mentre capisco che sta ricevendo l'immagine dal fatto che fatica a reggere il mio sguardo… la voce prepotente di mia moglie frantuma le possibilità di un successo che era quasi alla mia portata:— Allora, stronzo, hai finito o no di lavare i piatti?—...

lunedì 26 maggio 2014

Tombe maledette


Dopo una vita passata a Quarto Oggiaro, incrocio di sottoculture migliori della cultura nazionale, oggi abito in montagna, luogo di leghisti, fascisti e berlusconiani, i quali farebbero impallidire di incompetenza i mafiosi che credono di detenere la palma d'oro della cattiveria gratuita. Sono costretto ad ammettere di aver avuto torto a sperare, come speravano quelli della mia generazione di stravoltoni, nell'amore universale sceso dal cielo come regalo purificante. Mi resta solo da sperare che i giovani delle ultime generazioni non siano così coglioni come siamo stati noi, e che alla pace e all'amore universale ci credano davvero, e non solo col desiderio di ricevere un dono incartato nel simbolo "peace and love". Noi siamo una vecchia gioventù mai cresciuta, abitanti di un ghetto che ha meritato il nome di "barbon city", ma che era meglio degli ospedali cattolici dove ti tolgono un polmone sano per scroccare soldi allo stato, quello stesso stato in mano alle lobbie cristiane come comunione e liberazione, la compagnia delle opere e l'opus dei, congreghe mafiose di pedofili che alzano l'ostia al cielo per fare ombra ai propri crimini contro l'umanità, che sottraggono il futuro ai giovani, che costringono al suicidio i padri che così facendo sperano di far sopravvivere quello che resta delle loro famiglie in lacrime, abbandonate da uno stato che scende a patti con assassini che nasconde sotto alle toghe di ermellino impegnate a giustificare il Presidente di aver occultato le prove dello scellerato confabulare con gli stragisti. Come boy scout deliranti i politici applaudono sul palco davanti al quale sfilano poderosi armamenti già vecchi, che prima di spargere altro sangue scivolano leggeri su quello già versato dai poveri, che hanno dovuto svenarsi per pagare un esercito che si compiace di essere portatore di pace, ed esportatore di una democrazia che dà ragione al più forte, chiamandolo "il rappresentante del popolo". Un popolo rimbecillito dalla pubblicità, che lavora meccanicamente aiutando a trascinare il futuro del pianeta nella speranza che, un giorno, tutta la  storia dell'umanità sparisca persino dalla memoria degli alberi che stritoleranno, con le loro radici radioattive, le nostre tombe maledette.

domenica 25 maggio 2014

Felicità bisognose

Tutte le persone felici sono nel contempo anche insoddisfatte, se non lo fossero la loro felicità non potrebbe rinnovarsi, e appassirebbe nella consuetudine.

sabato 24 maggio 2014

Dissimilitudini

Il male va dove c'è del bene da combattere, e non va dove c'è altro male, perché il sovraffollamento gli impedirebbe di trovare una sdraio libera...

Senza speranze...

Essere tremendamente belli, intelligenti e affascinanti, ha delle indesiderabili conseguenze: si è odiati da tutti, e tutti sgomitano per farti capire di non avere speranze di riuscire a peggiorare...

giovedì 22 maggio 2014

Non era più lo stesso...

Qualcosa di inusuale doveva essere accaduto alla sua coscienza, perché la passeggiata fatta era la stessa di sempre, come lo era la panchina dalla quale fissava i monti, il lago e il cielo, ma lo stava facendo dall'alto di una consapevolezza diversa.
Ogni cosa che riempiva quel mattino era insolita, oppure era il suo modo di guardare che non era più lo stesso. I suoi pensieri, in compenso, erano confusi come sempre, perché rigettavano il modo nuovo di considerare la realtà che gli si imponeva, come se, non appartenendogli, stesse ordinandogli di aprire gli occhi. Temette potesse trattarsi del primo sintomo di un'imminente emorragia cerebrale, ma non provava nausea se non verso se stesso, e sapeva di meritarsela. Nessun giramento di testa, né vertigini gli stavano modificando la vista, ma le immagini che aveva attorno comunicavano attraverso significati che la loro esteriorità non nascondeva più.
Era come si fosse modificata da sé la qualità del fluire di pensieri che, invece di appartenergli e sgorgare dall'ignoto come da sempre facevano, avessero iniziato a procedere da un nuovo ordine interiore, attraverso una consequenzialità che, fino a quel momento, gli era stata preclusa.
Era accaduto tutto in un attimo, tanto lungo da mostrare l'illusione nella quale il tempo accumula debiti.
Tutto questo diverso vedere non poteva essere nato spontaneamente dal niente che stava dentro di lui, doveva essere stato lui a nascere dentro di esso, fecondato da qualcosa che gli era stata estranea fino a quel momento, oppure era il risultato di un fermento vitale, sempre presente in lui come possibilità di essere, che aveva maturato un seme che ora sbocciava riempiendolo di meraviglia.
Questo nuovo considerare la vita valutava tutte le direzioni possibili che la sua sete di conoscere osava percorrere, anche quelle che dirigevano i loro raggi all'interno di sé, e utilizzava la lotta per realizzare la pace.
A ogni pensiero se ne opponeva un altro, che gli contrapponeva una visione diversa generata da cause differenti che avevano altre ragioni di essere, e lui doveva osservare quel contrapporsi di forze dal centro di sé, ogni volta riconoscendo la natura delle verità che erano state offese, allo scopo di poterle guarire attraverso la loro comprensione prima, e i propri atti poi.
Gli sembrava di essere ritornato al tempo nel quale i bambini assillano gli adulti di domande, solo che ora l'adulto non era lì, presente, perché era lui stesso a doverlo diventare per poter rispondere a se stesso.

La conoscenza ha in sé il proprio guadagno, aveva letto da qualche parte, scritto da chi si guardò bene dall'aggiungere che quel guadagno, in soldoni, consisteva nella perdita del proprio egoismo...

mercoledì 21 maggio 2014

L'aforisma

L'aforisma è la sintesi di un pensiero lungo e arzigogolato che, alla fine, ritrovatosi in un punto imprevisto dal quale è stupito, decide di cancellare la strada fatta per arrivare fin lì... e di rivelare solo quello che si vorrebbe fosse un traguardo. Sovente quel traguardo è quello raggiungibile solo dalla pura imbecillità.

martedì 20 maggio 2014

La vera libertà


Se c'è la costrizione, e c'è, le sue ragioni di essere stanno nella libertà che a propria volta è una possibilità, la quale deve essere portata a maturazione attraverso la conoscenza perfetta che l'intelligenza ha il compito di affinare. La vera libertà è assenza di costrizioni, ed è raggiungibile da chi è tanto giusto e veritiero da sfuggire alla persecuzione della vita.

L'illusione della democrazia

La democrazia è il governo di una minoranza di delinquenti che ha comprato i voti di altri delinquenti, e ottenuto quelli degli ingenui disonesti che sperano di essere al più presto favoriti, alle spalle di chi è onesto.
Il fatto che la democrazia sia considerata il meno peggio, tra le possibili forme di governo, descrive la natura umana meglio di ogni altra cosa.

lunedì 19 maggio 2014

Il vero amore

Il vero amore non lascia dubbi, perché ogni volta che si guarda la persona amata di quella persona si intuisce la sacralità interiore, che si manifesta lasciandosi amare per ciò che essa è: pura generosità disinteressata.

domenica 18 maggio 2014

Uomini giusti

Nessuno che sia giusto può essere inconsapevole della verità che rispetta, ma quando si sa di essere giusti si tende a nasconderlo, perché mortificare chi non lo è... non sarebbe giusto.

sabato 17 maggio 2014

La morte ci è amica

La morte ci è amica, e non avrebbe senso una sua sconfitta, perché essa non agisce, ma aspetta che sia la vita ad andarsene.

venerdì 16 maggio 2014

Sono uno specialista nel dare definizioni quasi precise...

La cattiveria di alcuni: visone ottimistica della realtà che, però, ha il difetto di non ricordare la bontà degli altri.
Le falsità: visione realistica della vita che, però, si è scordata che senza la libertà di falsificare ogni verità sarebbe senza pregi.
Le presunzioni: caratteristica di chi, non avendo certezze, si affida alle ipotesi che più convengono.
La superbia: quando la presunzione non è contrastata dalla propria intelligenza.
Cattiveria trasparente: quando uno specchio ha la lamina argentata posteriore talmente rovinata da non poter più riflettere la verità dell'immagine che ha di fronte.
La banalità: il punto di vista più comune e scontato che fa sbagliare la mira quando si esprimono giudizi.
Il vuoto: è il destino di tutti i pieni che hanno un buco sul fondo della verità che conoscono.
La strumentalità: pratica adottata da chi ha un interesse diverso da quello dichiarato.
Il menefreghismo: stato d'animo tipico di chi tenta di immedesimarsi in Dio senza averne gli attributi. Quando è arrogante è sicuro di possederli.
L'egoismo: condizione necessaria che ha il bambino per poter diventare un adulto generoso.
La responsabilità: proprietà che nasce dalla coscienza che sa di non essere innocente.
La bontà: tensione al sacrificio di sé in favore del prossimo. È sbagliata quando tenta di sacrificare il prossimo e diventa illusoria quando chi lo fa non se ne accorge.
La connivenza: è il modo di stare insieme quando si è complici.


Io di fronte a me

Quella ripidissima scala, che conduceva alla stanza della musica pregata del Monkey Temple, mi stava spezzando le ginocchia e sui quadricipiti ci potevo friggere le uova.
— Fanculo a tutte le religioni del mondo!—
 riflettevo mentre salivo, incazzato con le facce demoniache di due statue leonine che mi osservavano dalla sua cima irraggiungibile, e che erano per me la prova della truffa salmodiata che faceva leva sull'atavica paura dell'ignoto. Ero un anarchico allora, con un'idea della libertà che non è mai cambiata, in tutti questi anni di tentativi di piantarle dentro le unghie. Solo che la Libertà Assoluta io la concepivo come fosse relativa e immediatamente applicabile alla mia vita.
Vivevo lì, un po' lontano da Swayambhu, in un loculo di fango senza mobili, con una stuoia in terra che spruzzavo ogni tanto di DDT cancerogeno, intuendo lo sguardo in aspettativa delle pulci, a miliardi e abituate al veleno, che speravano fossi io a morire per primo, così da potermi divorare senza fretta.
In Italia ero un disegnatore tecnico, al mio esordio, nel campo dei radar e degli apparecchi di telecomunicazione prodotti dalla Face Standard e ITT Americana, poi all'Alfa Romeo di Milano, dove disegnavo modifiche alle auto e codificavo nuovi disegni, trafficando con così tanti numeri che non mi licenziai neppure, fuggii e basta. La mia fu una vera fuga dai numeri, che allora detestavo, perché a me piace ancora disegnare. Io sono un disegnatore nato, e ora anche un apprendista studioso di matematica.
In Nepal, invece, mi guadagnavo da vivere spacciando hashish e marijuana ai turisti, da sotto ai miei lunghi capelli lisci che parevano ricci per i pidocchi che li filavano impazienti e voraci, e anche perché non avevo il coraggio di lavarmi, gettandomi nudo sotto al getto enorme che sboccava da un drago in pietra, in una vasca di cemento e pietre, enorme e gelida, piena di gente in fila sotto zero (era inverno), che rotolava in terra per la violenza del getto sotto al quale passavano correndo; un getto d'acqua che tentava di sciacquarti via anche la vita. Così sollevavo il ghiaccio sulla superficie di una botte che raccoglieva l'acqua piovana, a lato della cuccia dove dormivo, che era culla di larve ibernate di esserini indecifrabili e mi sciacquavo appena, col turbidume marcescente che ondeggiava sotto.
Avevo stretto amicizia con un francese di nome Patrick, più mingherlino di me e più sveglio, col quale conversavo in Inglese perché il Francese l'ho imparato dopo. Trafficavamo insieme e ci stravolgevamo con lo spirito di ragazzini che giocano. Lui era di Parigi, un po' più intellettualoide di me che tutti consideravano un violento che litigava con tutti, a causa di qualche rissa avuta coi Nepalesi, i quali non sono miti e accomodanti come gli Indiani. Io ero di Quarto Oggiaro e lì picchiarsi era normale se non si voleva essere messi brutalmente sotto. Ero pure un karateka allenato, per avere appreso questa arte in anni di lavoro sul tatami, da ragazzino, ma non ne rispettavo rigorosamente i principi di pace e serenità. Per questi fatti eravamo spesso in polemica e lui aveva la deprecabile convinzione che fosse suo dovere abbandonarmi, da solo, in mezzo alle risse. E quando si traffica, non coi numeri, i litigi ci sono. Qualche tempo più tardi queste mie attitudini mi condussero dritto al carcere di Kathmandu.
Comunque quel giorno eravamo tranquilli e seduti in un chai shop a vendere marijuana, quando un ragazzone Americano ci mostrò due strisce di fogli spessi, assorbenti e bianchi, ripiegati a fisarmonica, e ci disse che erano trip troppo forti per lui anche dividendone ognuno in quattro parti. Ce li vendette a un prezzo bassissimo che odorava di truffa, ma se davvero lo fosse stata l'avremmo ritrovato facilmente, perché era straordinariamente alto e con l'aria da borghese molto perbene, una rarità per chi non scalava le montagne. Lo pagammo e ingoiammo l'ultimo della fila, quello piegato d’avanzo e male. Il più grosso di tutti... 

Patrick era più esperto di me nei viaggi psichedelici, aveva fatto molti più trip del mio centinaio ed era psichicamente, all'apparenza, più avvezzo a non farsi trascinare dalle emozioni violente. Io invece avevo un candore che mortificava la stupidità, e tantissima voglia di vivere capendo il mondo, ma nessuna capacità o inclinazione personale poteva attutire l’onda brutale che ci stava investendo.
L'hashish (charas ricavato dallo sfregamento manuale delle infiorescenze della marijuana) a quel tempo era ancora di ottima qualità, in Nepal, ed era stato legale fino all'anno prima. Venduto in appositi baracchini per strada, faceva parte della cultura atavica di quei popoli, e nessuno si scandalizzava vedendo qualcuno in difficoltà, con manifestazioni fuori controllo che non entravano di precisione nel canone della moderazione. Per questo, quando dopo dieci minuti dall'assunzione io e Patrick crollammo con la testa sul tavolo, nessuno si preoccupò troppo. Quel “chai shop” (locale del tè) era un localino poco più grande di un capannone di paglia; era gestito da due fratelli Tibetani che ci conoscevano bene, coi quali discutevamo di tutto e che, per le mie idee di sinistra, già avevano tentato di strozzarmi una volta che dissi essere il Dalai Lama un fascista.
Io e Patrick capimmo, con apprensione, che le ragioni dell'Americano che ci aveva venduto l'LSD erano fin troppo giustificate, e che non ci aveva mentito affatto dicendoci che, anche se presi a un quartino per volta, erano esageratamente forti.

Dopo solo un quarto d'ora le prime vampate d’energia diventarono una vibrazione insostenibile, lo sguardo si fece appannato e si spense nel buio più nero: eravamo diventati ciechi. Disperatamente, uno di fronte all'altro, non potevamo parlarci né toccarci e neppure muovere le teste che si erano appiccicate con le guance al piano del tavolo. Io non potevo vederlo, ma sapevo che lui provava la stessa mia paura di non tornare più a vedere. Avrei voluto farmi coraggio e fargli forza, sapendo che era così anche per lui, ma non potevamo fare altro che lasciarci andare alla nostra incoscienza criminale e all'effetto dell'acido, che eccedeva in tutto, tranne che in comprensione delle nostre debolezze.
Con lo scivolare di un tempo che sembrava immobile, alla prima ondata di terrore si sostituirono sensazioni così estreme che anche la paura della cecità scomparve, e si dileguò in un nero profondamente lontano e solido, nel quale il pensiero osservava stupito una miriade di spirali colorate, stelle rotanti di quel cielo oscuro. 
Spirali che vorticavano e si attorcigliavano salendo, come stessero evaporando. Il mio pensare diventò una voce lontana e quasi non più mia, perché la mia individualità era scomparsa, esplosa nella paura. 
— Chi sono, cosa sono senza il mio io?—
 chiesi angosciato a quel buio, desiderando che dietro di lui qualcuno potesse rispondermi.
— Sto per morire?—
 gridai ancora
— È questo il morire?—
— Chi sei tu che parli col mio pensare?—
 mi chiesi, senza più riconoscermi
La mia preoccupazione non poteva coinvolgere l'idea di un Dio, non ero un bambino che credeva, io credevo solo a quello che mi si presentava davanti e ora, davanti, non avevo un Dio, ma qualche parte di me che non avevo mai conosciuto. 
E volevo conoscerla o, se proprio non fosse stato possibile, almeno capire come fare a parlarci senza dover pagare quel mostruoso prezzo che mi aveva incastrato nella disperazione.

Noi tutti siamo consapevoli della nostra individualità, e sappiamo che lei è unica, anche quando abbiamo un gemello o vediamo che parte di questa individualità pare essere ricalcata su quella di uno dei nostri genitori, o sul miscuglio di alcune caratteristiche di entrambi. Mai ci sfiora il dubbio che, nel nostro essere quella unicità, forse totalizzante, ci possa sfuggire un qualche suo lato, magari proprio il più importante. 
In quel tremendo e lungo attimo io quella parte l'avevo sopra di me, lontana ma evidente. La cosa che mi colpiva maggiormente era che sentivo di essere quella parte prima e più di ogni altra parte di me, e che quello era l'aspetto non responsabile delle mie azioni, ma capace di giudicarle. 
Ero troppo sconvolto per essere ancora spaventato, e stavo come sta un gabbiano con le ali rotte, che galleggia tra i flutti di una tempesta, sballottato tra scogli neri e taglienti.
Quelle spirali, che in quel buio roteavano di colori si acquietarono, lasciando quel vuoto nero per ricomporsi in immagini che si distorcevano davanti agli occhi i quali, a fatica, riassorbivano di nuovo la luce. Per prima cosa cercai Patrick e mi accorsi che lui cercava me.
Senza poter parlare né toccarci stavamo lì, come bambini appena nati e già quasi morti.
Si sedette al nostro tavolo un tipo con gli occhiali quadrati a fondo di bottiglia, antipatico e supponente, e ci disse di non farla tanto lunga che un acido non aveva mai ucciso nessuno, insistendo che ci alzassimo e andassimo a fare un giro per i terrazzamenti di riso asciutti, lì fuori, a riprenderci. Non so come potesse sapere che era un acido che c'impastava a quel tavolo e non, invece, morfina, ma certo non poteva immaginare in che situazione ci trovassimo. Al nostro silenzio ci scosse infastidito e, alla fine e finalmente, se ne andò insultandoci.
Riprendere un poco di padronanza motoria non fu facile e richiese forse un paio d'ore, ma è impossibile determinare con precisione il tempo trascorso in acido, quando l'unico riferimento sei tu, il tuo interno e, insieme a loro, tutto il resto che ondeggia gommoso.
Riusciti finalmente ad alzare il capo dal tavolo guardammo le immagini davanti a noi fluttuare in gelatinose volute opache, che si scomponevano e ricomponevano in bolle, riflettenti le stesse immagini rimpicciolite di quel locale che si deformava in loro, tante volte quante erano loro. I suoni persero la vibrazione, tenebrosa ma comprensibile, avuta per qualche momento, e cominciarono a comportarsi come le bolle, in una folle sintonia armonica. Immagini e suoni si fondevano in bulbi sonori incomprensibili, simili al rincorrersi dell'acqua che sgorga da una fontana. Si componeva, in quello scorrere, musica tonda, come echi di vibrazioni che mutavano in un chiacchiericcio chioccoso, occupando il posto di ogni altra sensazione.
La meraviglia era totale, moltiplicata dal replicarsi indefinito delle immagini che correvano, frammentandosi in fotogrammi, rapidi nel tracciare scie di cloni di sé, in sfere sonore che giravano, spiraleggiando nell'aria densa.
Si sedette vicino a noi un tipo alto e bello, con l'aria d’essere Austriaco, il viso incorniciato da capelli castani a lunghi boccoli fitti e aristocratici il quale, essendosi accorto del nostro essere in una visuale psichedelica, ci sorrise con simpatia comunicandoci che anche lui sapeva. Ci fece un discorso simile a, o forse proprio, una formula matematica che io non capii, ma che pensai dovesse rappresentare il mordersi la coda della ciclicità che non voleva concedere vie d'uscita a se stessa.
Il sole era già alto quando uscimmo dal locale, e la luce abbagliante parve metterci al centro dell'attenzione di un nugolo di bambini che conoscevamo per averli visti scorrazzare spesso lì intorno. Quei bimbi si resero subito conto della nostra particolare vulnerabilità. L'acido amplifica quello che si è già, e quando l'ego è rimpicciolito in quella proporzione due sono i destini che si appresta a subire, specchiando e amplificando quello che succede anche nell'essere della propria normalità: o si chiude nella difensiva sofferenza della solitudine, o si apre alla generosità suicida. Non ci sono vie di mezzo quando il tumulto dell'anima prende il sopravvento. Io mi persi nel secondo fato e iniziai a regalare prima gli spiccioli, e poi le rupie di carta a quei folletti gioiosi, immagine della mia allegria senza scampo. 
Patrick mi guardava sorridendo imbarazzato, lui non sapeva esattamente quanti soldi avessi, ma erano pochi, circa trecento rupie, l'equivalente di ventimila lire di allora, come duecento euro di oggi. Un lampo di preveggenza mi disse che stavo mettendomi nella situazione in cui si trovavano quei bambini, ma non riuscivo a smettere di essere generoso.
      Attratta da quella calca di bambini, si avvicinò Carlotta. 
Era una ragazza Italiana, delle parti di Torino, che avevo conosciuto a Kabul in una pleasure room (si legge fumeria), e mi aveva raccontato la sua tristissima vicenda che l'aveva spinta a fuggire in Oriente: suo marito era finito in galera per spaccio di stupefacenti e lei aveva, nel contempo, perso il suo bambino che le era morto in una di quelle apnee nel sonno che affliggono i neonati. Disperata e in balia di una grave patologia depressiva era partita a casaccio, e raccontava la sua storia a chiunque fosse disponibile a stare un poco con lei ad ascoltare.
Carlotta era una bionda naturale, con lunghi capelli disordinati in riccioli lunghi, stretti da perline conchiglie e ninnoli dei più svariati, che avevano trasformato la sua folta chioma in una giungla tintinnante, la cui gioia contrastava tristemente con stati d'animo che non erano attutiti nemmeno dai sogni.
A Kathmandu la conoscevano tutti perché, nel suo continuo peggiorare, era come impazzita e urlava isterica contro tutto e tutti. Non aveva più i documenti, che le avevano rubato insieme ai pochi soldi che aveva e stava lì, senza visto, a urlare disperazione.
In questo il Nepal è profondamente dissimile dall'Italia, qui la polizia ti porterebbe in qualche Centro d'accoglienza o casa famiglia dove, anche nel calore di persone affabili ti avrebbero comunque, e forse anche giustamente, non posso dire quanto, privato della libertà.
 In Nepal no, lì dove si finisce in galera per poco, anche per un permesso di soggiorno scaduto da due ore, nessuno le faceva nulla. I Nepalesi sanno che dalla pazzia esce un io diverso e indifeso, e la considerano un tocco di Dio che porta con sé una necessità d'aiuto quindi, quando stai male tutti ti aiutano, ti ospitano a casa coi loro bambini anche se urli, ti vestono, ti nutrono, fai la spesa gratis ai mercati, sbraiti davanti ai poliziotti e loro si girano come se la loro attenzione fosse richiamata altrove. Questo è come fosse un prolungamento della loro consapevolezza religiosa, questa è la comprensione della sofferenza altrui. Ho avuto molti esempi di queste storie bellissime d'accoglienza io che, con i Nepalesi, popolo orgoglioso e a volte irascibile col quale ho avuto più di molti problemi, non vado proprio d'accordo.
Stavo dicendo che, mentre i bambini mi circondavano di manine allungate desiderose di spiccioli, arrivò Carlotta. Quando si è in acido la pazzia degli altri non pare così lontana dalla propria, quindi le sorrisi e le chiesi se poteva tenermi i soldi, perché io non potevo più gestirli. Lei, che erano mesi che non ne toccava, acconsentì senza meravigliarsi, li intascò e se ne andò dove non sapeva nemmeno lei.
 Finalmente liberato da quel peso m'incamminai, con Patrick, verso dove non sapevamo nemmeno noi.

Benché la meraviglia o il terrore, nella dimensione psichedelica siano totali, e una nuvola possa sembrare una chiesa, un drago o il castello di Dracula, e un foruncolo il primo segno di un incipiente tumore o una macchiolina colorata e ridicolmente divertente, non è lo spettacolo esteriore coi suoi arabeschi che costituisce la meraviglia maggiore, o l’incubo peggiore, dell’esperienza allucinatoria.
È il suo effetto sulla coscienza che sconcerta, analogo al rincorrersi del circonvoluto arzigogolio dei pensieri. Effetto che ricalca le forme che riempiono la vista, l’udito, l’olfatto, il tatto e il gusto, e che si scambiano continuamente di posto tra loro. L’LSD amplifica e spezzetta, ingigantendoli, o fonde tra loro, rimpicciolendoli, i minuscoli e infimi componenti della realtà che in questa amplificazione, verso l’alto o verso il basso, dentro o fuori, surreali tanto quanto reali, mostrano, in queste interiezioni sì la stessa realtà, ma per vie diverse e in vesti inconsuete, attraverso la correlazione analogica che sussiste tra gli elementi del tutto e la loro somma che dà forma a quel tutto. 
Un tutto il quale è sempre maggiore e più vicino alla perfezione di quanto lo sia la somma dei suoi componenti imperfetti.
Derivando necessariamente ogni cosa dallo stesso Principio unico che la genera, irradiandola e dividendosi in questa cosa, ogni elemento del tutto deve essere simbolo del tutto, al grado che gli appartiene e l’acido, coi suoi effetti, non può ovviamente sfuggire a questa legge universale dalla quale è generato lui stesso. Quindi l’effetto dell’allucinogeno rispecchia, a suo modo ma secondo la Legge unica, la realtà e tutti gli aspetti che la realtà mostra, anche i meno evidenti. Come anche avviene, senza l’aggiunta degli effetti psichici dati dagli allucinogeni, nella realtà che tutti, normalmente, conosciamo. Solo che molti di questi aspetti, in acido sono lì, sfrontatamente davanti, anche se ancora non tutti li possono vedere e decodificare, nemmeno con l’aiuto dell’acido. Ma questi predispone l’individuo (mica tutti), coi suoi effetti sconvolgenti sull’io, alla considerazione degli elementi grandiosi o infimi della realtà, scatenando una sequenza, tanto immaginifica quanto solida di pensieri cosmogonici, di carattere universalizzante, che lasciano senza fiato e a volte anche senza raziocinio. In quei modi dilatati e laterali della coscienza l’osservazione di una famigliola che passeggia può ricondurre il pensiero che stava, per esempio, deviando sul tragico, alla riflessione sulla necessità di associazione nel cosmo e il bisogno dell’altro per la sopravvivenza dell’insieme, che lotta col timore per il diverso da sé; oppure dare la netta sensazione che, in questo insieme, ognuno di noi è una componente incompleta, ma altrettanto indispensabile a quell'insieme.
Dalla grande parte al tutto, dal tutto alla piccola parte si mostra, con evidenza, la relazione analogica che lega le diverse realtà che prendono vita dalla stessa e unica esigenza d’amore, della quale è ricamato l’universo intero ma, soprattutto, che disegna l’intenzione sacra della sua unica e trascendente Causa.

Quando la terra sotto ai piedi si deforma e allunga verso il cielo, prendendone il posto e il cielo, per nulla disturbato, scivola sotto, comunicare diventa arduo, oltre che non necessario.
In acido una semplice occhiata parla per ore e la distanza che separa il vedere dal dire, non è più percorribile. Come viaggiatori nell'ignoto di un sogno faticoso ci piegavamo in avanti, nel vento della difficoltà di essere così lontani dalla tranquillità, al punto di non doverne temere le conseguenze.
Si incrociavano gli sguardi di più persone nello stesso istante, leggendone l'indifferenza o le preoccupazioni, e tra una pietra e l'altra del muretto che segnava il sentiero trascorreva l'apparenza di un'ora in pochi secondi, e quegli stessi secondi ridiventavano, subito dopo, lunghi una giornata.
Io e Patrick ci dividemmo più volte e ci incontrammo ancora, con sguardi stupefatti, dentro quel Cosmo diventato familiarmente diverso, dove tutto era vivo e ti osservava arrancare con le tue certezze ridicole. Arrivò la sera rossastra, ma ancora il trip stava salendo quando, normalmente, sarebbe dovuto scendere.
Era certo colpa di un dosaggio fuori misura il cui effetto avrebbe dovuto, prima o poi, esaurirsi.
L'acido lisergico deve essere diviso in singole dosi, dal laboratorio che lo sintetizza, e questo dosaggio è commisurato al grado di purezza della sua sintesi e purificazione chimica, così che solo gli acidi di qualità elevata che derivano dalla claviceps purpurea possono essere dosati in quantità massiccia, senza avere conseguenze sgradevoli sull'organismo fisico. 
L'insieme delle componenti psichiche, invece… quello è sempre a rischio.
Solo nel culmine di quella notte, stranamente calda e luminosa (era gennaio a mille e ottocento metri di altitudine e c'era la neve) il cuore riprese padronanza di sé, e il viaggio si stabilizzò nei colori e nei suoni più creativi che avessimo mai visto e udito.
In quei momenti realizzai di non avere più una rupia in tasca, di essere a tredicimila chilometri da casa, al freddo, con Patrick (in quasi totale bolletta pure lui) come unico amico, felice di essere ancora un vedente, arruffato e stupido, ma vivo. 
Altri due giorni durò quel trip quando, di solito, dovrebbe scendere dopo un giorno.
Senza dormire, quasi senza mangiare né bere, e con nel cuore e in testa nuove questioni sollevate da quel terribile caos, che andavano ordinate di nuovo, ma non più scopate sotto il tappeto della convenienza bruta, cercavo Carlotta e i miei soldi i quali, ora, per mia necessità erano diventati potenzialmente i suoi.
Fu lei a trovarmi, mi cercava da due giorni e me li rese semplicemente, con un sorriso, preoccupata dall'essersi bevuta un bicchiere di latte pagandolo con loro. Non ricordo nemmeno se la ringraziai, tanto ero emozionato e felice, almeno tanto quanto lo era lei di avermeli resi. Non la rividi mai più, da allora, perché non molto tempo dopo mi ritrovai in una cella di quattro metri quadrati, ma so che della generosità e della bellezza di Carlotta il mondo è pieno, solo che non la si può riconoscere se non nel rischio dell’averne avuto il bisogno.

L'incredibile viaggio nel mio buio non aveva depositato certezze, nella cenere delle sicurezze fasulle che aveva bruciato, ma mi aveva tatuato il sospetto che quella spirale, che permeava quel modo psichedelico di osservare la realtà, fosse più che una modalità ordinante un universo diverso.
Invece che dissuadermi dal riprovarci, l'essere riuscito a sopravvivere a un’esperienza insopportabile mi disponeva a pensare che ce l'avrei fatta ancora, altre volte che si fosse presentata, a sopportare quella fatica terribile pur di avere una qualche possibilità di vedere più chiaro, nel mio buio colorato e misterioso. Continuai per anni a fare trip, spinto da un bisogno di capire che non fu soddisfatto dai trip.
Avevo, destinata a durare poco, ancora tutta la striscia d’assorbenti che avevo comperato dall'Americano e provai, qualche giorno più tardi, ad assumere un quarto di una dose singola allo scopo di capire la proporzione della quantità che avevo preso quella prima volta, con la quantità che si incontra normalmente, quando ci si fa un trip di quelli buoni che ci sono in commercio. Un rosa Pink Floyd, per esempio. Un quartino di quei trip era molto più forte di un Pink Floyd o di un Purple Haze o di una Micropunta nera, o un White California o di un Piramidino in pellicola o un Vulcanino viola ed era paragonabile a un Brown Explosion, che era l'acido più forte che, in Europa, fosse mai stato commercializzato. Quell'ultimo della striscia era il più grosso dei quindici che la componevano, perché risultato di un errore di taglio e piegatura della stessa, e quindi era come se io mi fossi fatto cinque Brown Explosion in una volta sola. Una inimmaginabile follia.
Probabilmente è stato commesso un grave errore di valutazione nella piegatura di quegli assorbenti. L'acido lisergico si misura in microgrammi che sono, ogni microgrammo, la milionesima parte di un grammo, e la dose medio-alta è costituita da circa duecentocinquanta microgrammi. Quindi mille microgrammi sono quattro trip forti, diecimila sono quaranta, centomila sono quattrocento e da un milione, equivalente a un grammo, se ne ricavano quattromila. È quindi facile far casino nel dosaggio, corrispondente al modo di piegatura delle strisce assorbenti.

L'immagine della spirale, con la sensazione della sua possibile importanza, mi accompagnò per molti anni ancora e quando scoprii, finalmente, il suo significato profondo capii, in conseguenza a quello, che quel terribile acido aveva rappresentato il segno di una predestinazione. La predestinazione al dover guardare con lo Spirito che è in me, e a non dover più utilizzare la mente per cercar di penetrare l'esistenza. Esistenza della quale intuisco l’essenza nell'immediatezza della conoscenza dei suoi principi universali. Principi che sono superiori al tempo e che si mostrano solo successivamente alla mente, ma nella loro immediata correlazione con l'Intelletto universale, Centro di ogni realtà. La comunicazione con questo Centro, per prima cosa, concede la conoscenza diretta delle Sue leggi ed è data dalla Sua volontà, che stabilisce l’adeguatezza delle misteriose qualificazioni individuali che aprono alla vista sottile. Per questo conoscere non ho più fatto altre esperienze di ricerca attraverso sostanze. Per questo sono consapevole che il dire della realtà non relativa può solo essere compreso da coloro che questa realtà già sperimentano consapevolmente. Io so per tutto questo, con certezza assoluta, che il vero comprendere non può essere insegnato né comunicato perché ognuno, per volontà del Cielo, deve aver salvaguardata la propria libertà di capire da sé chi è lui stesso e cos'è la vita.

martedì 13 maggio 2014

Orizzonti

Nessun orizzonte può dividere la mente, perché esso è simbolo dell'ampiezza della visuale che la mente è in grado di abbracciare. Poiché ogni orizzonte intellettuale non è mai raggiungibile, allo stesso modo dell'orizzonte fisico mostrato da un panorama, esso costituisce un limite solo quando l'intelligenza, scoprendo di avere sotto ai suoi piedi l'orizzonte di qualcun altro, lo ridicolizza senza avere ragioni per farlo diverse da quelle date dalla propria boria intellettuale.

Estremi che si sfiorano

La piccola spiaggia di sassi si era ormai abituata alla silenziosa presenza di quell’uomo anziano il quale, col sole o con le nuvole, tutti i giorni dell’anno si accomodava sotto il salice piangente, facendosi sfiorare dalle sue fronde mentre queste ondeggiavano, cullate dalla brezza, come se stessero per tuffarsi in acqua. Le onde, rese dense dal gelo invernale, accendevano i colori sbiaditi dei sassi, accarezzando le radici di quell’albero solitario, nel loro armonico pulsare in sintonia con i battiti del cuore del lago.
La solitudine, in quell’ansa del mondo avrebbe regnato indisturbata, se il Mistero silenzioso non avesse deciso altrimenti.
In un freddo mattino la spiaggia vuota si animò di vita, per l’arrivo di un gruppo di anatre che si fermarono a chiedere delle briciole, in cambio della loro bellezza.
Un bambino da lontano le vide, e le avvicinò di corsa, sbocconcellando loro del pane che teneva tra le mani.
Con la coda dell’occhio il bambino sbirciò il vecchio e il salice, e gli parvero elementi di un quadro vivente che attendeva l’allegria di un fanciullo, così si aggiunse a quella incantata presenza, senza che la tristezza potesse opporvisi.
Sarebbe stato facile immaginare quale, tra i colori di quel quadro, si sarebbe opposto alla depressione emanata dall’immagine.
La qualità del silenzio è conosciuta solo dalle ragioni che le parole hanno per tacere, ma il bambino non aveva ragioni da aggiungere al silenzio e salutò l’uomo, i cui occhi cercavano di mettere a fuoco, nascosti dietro le sottili fessure delle palpebre, i motivi che avevano allontanato un tenero affetto.

— Ciao— disse sottovoce il bimbo, senza disturbare l’uomo con lo sguardo

— Ciao— rispose questi, in risposta al calore della spontaneità

— Cosa stai guardando?— continuò il piccolo, questa volta fissando i ricami delle rughe che si erano animate nel rispondergli

— Cerco di ricordare il volto di mio figlio, che non vedo da tempo—

— È partito per andare lontano?—

— No— rispose il vecchio
— Non ci parliamo più—

Il silenzio tentò di tornare, ma fu anticipato dalla curiosità del bambino
— Non vuole perché sei stato cattivo con lui, o è lui a essere cattivo con te?—

— Come ti chiami?— chiese dolcemente l’uomo

— Posso chiamarti curiosino?— riprese, sorridendogli

— Il mio nome è Benedetto, ma tutti mi chiamano Bibi, dicendo che per essere benedetto dovrei smettere di imprigionare gli insetti che non vogliono giocare con me—

Il vecchio parve ricordare cose che non avrebbero dovuto essere importanti, ma che si erano imposte alla sua attenzione

— Sì— rispose
— Abbiamo tutti provato a costringere la libertà altrui
— Ma togliere la libertà anche a un solo insetto ferisce il tuo cuore, che batte perché è la libertà di non arrestarsi ad accompagnare il suo ritmo—
Il bimbo parve riflettere per un lungo istante

— Perché il mio cuore è libero di battere, ma non di fermarsi?— gli chiese infine

— Perché da lui dipende il rossore delle tue guance, che si allargano ad accogliere il sorriso quando riconosci la verità, e il cuore vive di quei sorrisi—

A quella risposta il bambino gioì, e i suoi occhi s’illuminarono prima ancora di chiedersi cosa fosse la verità.


lunedì 12 maggio 2014

Sulla guerra

La guerra, qualsiasi sia il piano sul quale è attuata, personale e interiore oppure collettivo, ha per scopo la pace, perché la pace, senza la minaccia della guerra, avrebbe un altro nome. Come tutto anche la guerra ha due volti, uno di conquista e l'altro di liberazione. A ognuno la libertà di scegliere da che parte stare, ma lo stare contro qualsiasi guerra è solo un modo per scegliere di non scegliere, e di subire soltanto.

venerdì 9 maggio 2014

La sfera della realtà

In generale si può dire che la giovane età abbia il vantaggio, rispetto a quella avanzata, di avere un minor grado di responsabilità, ma col trascorrere del tempo essa sarà gravata, o sollevata, dal maturare delle conseguenze che il suo aver agito avrà determinato. È logico siano le conseguenze negative e rendere difficile il vivere di ognuno, a causa dei debiti contratti dall'aver vissuto in disarmonia con le leggi che modulano lo svolgersi della realtà, ma a ognuno andranno anche i vantaggi dei crediti conseguenti agli errori altrui fatti nei propri confronti. Ognuno paga e riscuote per le scelte fatte, o che ha spinto gli altri a dover fare, e non c'è solo l'appesantimento del vivere dato dallo scorrere del tempo ma, insieme a quello, c'è anche la soddisfazione di vedere che le ingiustizie commesse da altri sono state, come è accaduto per le proprie, scoperte. Più tardi la verità viene a galla e maggiore sarà la pena provata da chi non ha avuto il coraggio di confessarla quando avrebbe potuto. Le verità che non verranno alla superficie saranno comunque sempre esposte alla luce della nostra coscienza, e la sofferenza per la loro presenza persisterà senza poter essere attenuata.

Non ci si può sottrarre alla verità, perché più la si sarà seppellita in profondità, e maggiori saranno le possibilità che essa riemerga dall'altro lato della sfera della realtà.

Logica rigorosa sull'impossibilità che una menzogna possa essere perfetta

Ogni bugia si deve reggere su altre bugie e, alla fine, si arriva al dover considerare la bugia prima la quale, essendo una menzogna, deve necessariamente essere preceduta dalla Verità che si vorrebbe cancellare.

Buone ragioni meno buone di altre...


Le buone ragioni per uccidersi è vero che non mancano mai, e sono le stesse che dobbiamo ringraziare quando grazie a esse siamo riusciti a migliorare il nostro essere al mondo per una ragione più grande dello stesso mondo.

giovedì 8 maggio 2014

Una cosa così piccola...

Una cosa così piccola non avrebbe dovuto avere la necessità di pensare. Va bene che il pensiero non è poi nient'altro che il mezzo che esprime il frutto dell'intuizione, e poiché l'intuire è realtà della quale il pensiero può solo raccogliere macerie, senza sapere quale sia stata la costruzione che, crollando, le ha prodotte, sarebbe anche lecito dire che il pensiero avrebbe conseguito risultati migliori se si fosse affannato con due aghi attorno alle smagliature di una vecchia calzetta.
Sta di fatto che sta cosa piccolissima pensava e, ovviamente, intuiva pure. Certo, il suo intuire non è che si potesse definire proprio un intuire di qualità superiore, era piuttosto un annusare, con lo spirito, cose sconosciute da gettare in pasto a processi mentali che prontamente le decodificavano, operando con uno stile da riconvertitore di rifiuti. La diossina, innalzata al cielo da questo processo, a questa piccola cosa pareva poesia pura, che incidentalmente sbordava, a volte, nell'elucubrazione trascendente.
Pur essendo così piccola questa cosa era costretta, come tutto il resto dell'esistente, a celebrare, con la sua presenza che aveva l'aria di non essere necessaria, la Possibilità universale, la quale si esibiva in una creatività così esagerata da avere, come unico limite, l'impossibilità. La Possibilità non mancava poi di sottolineare, rivestendola di incongruenze ridicole, ogni contraddizione alle sue stesse leggi, dando alla contraddizione il senso dell’insensatezza che è giusto che abbia.
Insomma, in questa piccola cosa ci stava tutto un universo, analogo a quello mastodontico che riempiva una grandezza indefinita, perché si esprimeva attraverso gli stessi suoi princìpi. Sarebbe forse più preciso dire che era il mastodonte a seguire le leggi che regolavano le piccolissime cose di cui era composto, ma non staremo qui a confonderci più del necessario.
Un bel giorno, a immagine di un accidente cosmico imprevisto, questa piccola cosa ebbe un contraccolpo strano, e il suo minuscolo apparato visivo mise a fuoco la correlazione che legava il suo esserci alle ragioni dell'esserci di tutte le cose. Fu un bruttissimo colpo per lei che, fino ad allora, era stata fermamente convinta di potersi fare i cavoli propri, di nascosto da tutto e da tutti. In fondo era l'unico vantaggio che le pareva di poter godere a essere così piccola. Lo scoprire, di colpo, che tutte le sue intenzioni, i suoi pensieri e gli atti scorrevano sullo schermo in technicolor del Creatore, che stava lì a riderci sopra masticando pop corn, la rese timida e circospetta ancor più del necessario, e le inflisse il sospetto che tutto l'universo costituisse una trappola, al cui centro lei ci stava non solo a disagio, ma anche incazzata nera.
Tutto quel che le era, fino ad allora, apparso come il risultato caotico di un rigurgito da cattiva digestione ora aveva acquistato un senso unico, preciso e ineluttabile, almeno per lei, e in conseguenza di quel senso ai suoi occhi si era resa evidente la direzione vorticosa che spingeva tutte le cose verso un destino unico e incontentabile.
Non era certo il pensiero di diventare una qualche sorta di cibo che la spaventava, lei sapeva bene di essere disgustosa e troppo piccola per sfamare altri esseri, ai quali lei aveva la missione di procurare una febbre terribile, che li prostrava in abbondanti sudori, venefici e disintossicanti.
Lei, piccola e spaventata cosa, si era sempre immaginata che quelle gocce di sudore fossero elementi casuali, simili agli imprevedibili spruzzi d'orgasmo che avevano le onde dell'oceano, e che avevano come unico significato quello di mostrare l'inconcludente e vanesia opera di un universo stupido.
Ora, a causa di un infido colpo di luce che si era ricordato di lei, questa piccola cosa era precipitata nella certezza che anche la più minuta goccia di quel ribollire costituiva un accidente che non poteva dirsi casuale, e non poteva proprio perché era parte ed effetto delle leggi che regolavano il liquido inebriante che intesseva l'esistenza di ogni realtà, la propria compresa, e capì che il suo sudare, il suo piangere e il suo sanguinare veleno erano parte di un progetto libero il quale, attraverso la libertà di spruzzare in tutte le direzioni, seguiva un solo ed essenziale senso, sempre lasciando a tutti la libertà di intuirlo, seguirlo o lasciarlo dietro di sé.
Tutte quelle goccine, minuscole quasi quanto era lei, erano libere di scontrarsi, sommandosi o dividendosi, innalzandosi o abbassandosi, entrando o uscendo, di associarsi o di combattersi, e la guerra o la pace che da questa danza prendevano forma, oppure morivano, erano arabeschi della medesima intenzione trascendente che intesseva, con pazienza al di sopra del tempo, la propria aspettativa di armonia universale.
Questa cosa piccola si sentì ancora più piccola, spettatrice e attrice di una commedia nella quale ogni elemento che la componeva scriveva da sé la propria particina, e lo faceva attorno a una sceneggiatura che era stata sì imposta, ma era così vasta da non negare la libertà di correggere, o di togliere, i suoi funerei paramenti.
Era un magnifico spettacolo quello che ora si apriva all'appuntito sguardo della piccola cosa che, incantata, si era scordata di recitare il suo copione naturale: produrre febbre la quale, innalzando la temperatura corporea dell'essere che la ospitava, avrebbe aizzato le difese organiche di quel corpo contro l'esercito dei batteri nemici che l'avevano infestato.
La conseguenza fu devastante, e quel grande essere morì entrando di nuovo, ma in un altro stato, nel ribollente pentolone cosmico da dove il suo destino avrebbe voluto che lui ne fosse uscito in un più dignitoso e consapevole modo.
Chi avrebbe potuto immaginare che, in tutto quello sbattere rimescolato di spruzzi che velavano il proprio senso, si nascondesse la ricetta di una inaspettata, possibile, e infinita libertà?
La piccola cosa si accorse di dover morire insieme all’essere che l’aveva ospitata, e si dispiacque che, per una sua mancanza, sarebbero morte anche le altre piccolissime cose che in lei dimoravano.
Il suo ultimo sguardo uscì dalla nuova consapevolezza sicuro di avere ancora altre particine da recitare, nell’immane spettacolo che il vortice cosmico le avrebbe imposto, per riparare all’errore di non avere adempiuto ai termini del contratto silenzioso che la sua vita aveva stipulato con la morte la quale, insoddisfatta del risultato, le avrebbe teso un’altra, movimentata, trappola.