giovedì 29 marzo 2012

La dieta estrema


Il magnifico panorama che stava sdraiato davanti al suo sguardo non pareva interessato ai problemi che riguardavano la vita di chi lo osservava pensoso. Se ne stava lì, sempre uguale a se stesso, incurante delle innumerevoli mutazioni che i minuti elementi dai quali era composto subivano incessantemente. Chi si compiaceva della bellezza di quel paesaggio era un uomo sulla sessantina, del quale qualsiasi identikit non avrebbe potuto isolarne i tratti, troppo comuni anche per un criminale, per distinguerlo dagli altri umani disperati come lui. Si sarebbe commosso volentieri, se avesse potuto, a quella vista i cui colori cangianti impedivano che diventasse consueta. Da quando si alzava presto, al mattino ancora umido delle lacrime che la notte aveva versato, trascorreva alla sua finestra preferita la mezz'ora che, prima della malattia, era destinata alla colazione. 
— È un tumore— gli aveva detto il medico, nel tono piatto che assume chi non vuole allarmare i pazienti.
— Un adenoma alla parotide— poi, con la stessa opportuna noncuranza, gli disse che toglierlo era rischioso a causa del nervo facciale le cui tante diramazioni stavano scomode nel mezzo della ghiandola da asportare. Aggiunse che la recisione accidentale di alcuni dei suoi rami avrebbe potuto avere, come conseguenza, un lato della bocca piegato nel sorriso sardonico di chi ha pure l'occhio che le sta sopra sempre spalancato dalla stessa accidentalità.
Immaginarsi in un'espressione del genere, che esprimeva lo stesso sarcasmo col quale lui, fino a quel fatidico momento, aveva sempre giudicato il mondo, non lo aveva rincuorato, e quando il chirurgo gli chiese se si fosse fatto operare da lui i suoi occhi non poterono fare a meno di notare le dita delle sue mani, deformate dall'artrite, impugnare un bisturi tremolante.
— Certo che sì— gli rispose, e non si fece più vedere.
Informarsi sulla propria malattia è necessario se si vuol lottare, necessario e doloroso. Alla fine la chiarezza consuma le ombre del dubbio lasciando scoperta la sola opportunità sensata, in una miriade di altre offerte dalla discutibile intelligenza umana, quella di affidarsi all'intelligenza organica, la stessa che ha concesso alla malattia di progredire, la stessa capace di organizzare la vita e la morte.
Era deciso, avrebbe digiunato a lungo per affamare il tumore. Nel digiuno l'azione diventa un non agire, un lasciar fare all'ordine naturale che interrompe la nostra gioia solo per dirci che stiamo sbagliando. Senza cibo, privato della medicina che mantiene costante il pulsare della vita, l'organismo si nutre di sé, cibandosi di ciò che non è indispensabile alla sopravvivenza, e il tumore è un eccesso utile solo alla morte.
Quante volte aveva desiderato morire, ma era un lusso che ora gli appariva in tutta la sua vanità.
Il digiuno è un affascinante esercizio di potere, il potere che ci è concesso per ostacolare un processo vitale che ha smarrito la strada, e l'ha smarrita perché gli abbiamo dato indicazioni sbagliate. Digiunando si percorre una via in senso inverso, per ritornare all'incrocio dove non si è riflettuto abbastanza. Digiunando si lascia il corpo libero di organizzare una nuova condizione di vita che conceda, all'intelligenza ferita, di poter sbagliare ancora.

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